Le foto testimoniano, le foto raccontano, le foto dovrebbero accendere emozioni e riflessioni.
La Sierra Leone possiede i diamanti più puri al mondo e questo primato ha scatenato una guerra civile tra il governo centrale e i guerriglieri del RUF (United United Front) guidati da Foday Sankoh, per il possesso delle miniere e del commercio mondiale delle preziose pietre.
Il conflitto è iniziato nel 1991 e terminato nel 2002 con gli atti di pace e la conseguente ripresa di un quotidiano possibile.
Il conflitto ha lasciato un’eredità drammatica, ha fatto a pezzi uomini e cose.
120.000 morti, quasi metà della popolazione costretta a lasciare le proprie abitazioni, bambini rapiti e costretti combattere con i ribelli e migliaia di loro coetanei a cui sono stati amputati gli arti.
Nel gennaio del 2001 sono atterrato a Freetown, capitale della Sierra Leone, su invito di un medico italiano, Crescenzo D’Onofrio, che lavorava all’ International Medical Corps e operava i bambini soldato per togliere loro la sigla RUF, incise sul petto, che successivamente l’avrebbero esposti al riconoscimento e a future vendette.
Il paesaggio umano era desolante e violento. La possibilità di muovermi e fotografare era difficile e pericolosa perché militari e bande armate mettevano i villaggi sotto tiro.
Chiedo il permesso ad una Ong francese, Handicap International, di potere entrare nel campo profughi della capitale e realizzare un reportage sui 400 amputati riuniti in quel luogo in attesa degli arti artificiali che venivano costruiti in una grande officina.
Ottengo il permesso e la mattina del 2 febbraio varco l’entrata del campo. Mi aggiro tra le tende incrociando mutilati di ogni età. Mi fermo davanti ad un uomo seduto, giovane, con le braccia di resina e al posto delle mani due chele metalliche. Mi avvicino, lo saluto, scambiamo qualche frase e gli chiedo il permesso di fotografarlo. Lui mi sorride e acconsente. Faccio qualche scatto e lui mi chiede se conosco la sua storia. Gli rispondo di no e allora lui si volta verso l’ingresso della tenda e chiama un nome. Esce una bambina di 10/11 anni, me la presenta come sua figlia e l’abbraccia con le sue protesi. Mi chiede di fare una foto. Mentre m’inginocchio per cercare la luce migliore, lui inizia il racconto….”sette mesi prima sono arrivati i ribelli nel mio villaggio, nella regione di Kono, bruciando le case e terrorizzando gli abitanti. Quando sono arrivati alla mia capanna hanno preso mia figlia, le hanno puntato la canna di un kalashnikov in testa, messo un machete in mano e costretta a tagliarmi le braccia. Poi, con un sorriso, mentre la guarda con dolcezza, mi dice : “però dopo tanto dolore, almeno posso ancora abbracciarla e vederla crescere.
Il silenzio è la sola forma di rispetto dovuta a tanta tragedia.
Francesca De Vito
Lug 4, 2022 il 7:44 PM
Bellissima foto, io ne ho un copia firmata.