Afghanistan

Raccontare l’Afghanistan è come fare un viaggio tra conflitti, umanità, violenza, droga e signori della guerra, padroni del paese, i quali hanno fatto di questo conflitto la loro cassaforte personale oltre che spogliare la popolazione civile di qualunque diritto e futuro. Dal 1979, anno dell’invasione sovietica, non c’è mai stato un solo giorno di pace. Conflitti e massacri sono stati il quotidiano difficile di chi è costretto a vivere in condizioni provvisorie e inventarsi una possibilità di vita.
Dopo la cacciata dell’Armata Rossa nel 1989, i talebani presero il potere a metà degli anni 90 e lo mantennero fino al 2001, anno dell’abbattimento delle Torri Gemelle. Massud “il leone del Panshjir” artefice della vittoria sui sovietici e successivamente contro i talebani con il suo esercito dei Mujaheddin, venne eliminato dai servizi segreti occidentali per impedirgli di realizzare una rivoluzione in proprio che sarebbe stata destabilizzante per i molteplici interessi economici in gioco.
Nel 2001 intervenne l’Alleanza del Nord e i contingenti internazionali per cercare di imporre un assetto politico che garantisse loro un’adeguata presenza sul territorio. Un territorio che è stato da sempre appetibile, da Alessandro Magno agli Inglesi, e ora che controlla l’Afghanistan e attualmente chi controlla
l’Afghanistan controlla di fatto i confini di Cina, Pakistan, India e Russia. Oltre agli interessi strategici militari, geopolitici ed economici e al controllo del traffico di eroina che attualmente rappresenta circa l’80% del PIL nazionale e che fa dell’Afghanistan un narco stato. E’ un paese strozzato da un economia sempre più povera. Agricoltura e pastorizia (principali risorse) sono state compromesse da un territorio disseminato di mine antiuomo e quindi difficilmente coltivabile. A Kabul, l’ospedale della Croce Rossa, diretto da Alberto Cairo, ospita centinaia di vittime di queste mine
costruite con l’intento di non uccidere ma di mutilare mani, braccia e gambe.
Questo, a grandi linee, è il panorama politico e umano che costringe l’Afghanistan a sopravvivere al
“grande gioco” che le potenze straniere decidono non per un ritorno alla pace e alla democrazia ma per una logica del mondo costruita sui molteplici interessi.


2019… Un giorno di ottobre a Kabul.

Polvere, sole e traffico assordante sono il panorama che accompagna la vista di una città che confonde centro e periferia, case di fango e mercati improvvisati, suoni e colori.
Sono in macchina con Luca Lo Presti, presidente di Pangea, e ci guida Allawdin, abile pilota che procede sicuro in interminabili gimcane tra greggi, animali vaganti, mezzi militari e un’umanità moltiplicata ad ogni angolo. Luca, nei giorni precedenti, mi aveva parlato a lungo di LAILA raccontandomi la sua storia. Un racconto di dolore, di violenze fisiche, di una vita segregata priva di qualsiasi riscatto….e di come, averle offerto un’opportunità aveva cambiato esistenza e futuro.
La casa di Laila è un muro di argilla ocra, al centro una porta di ferro azzurra si apre su un piccolo giardino ombreggiato da un pergolato di uva e cespugli di rose riflesse sui vetri di una casa modesta ma piena di decoro. Il sorriso che mi accoglie è la prima emozione.
Le storie tragiche, ancora vive nella mia memoria, sono svanite in quel sorriso, davanti ad un corpo minuto e straordinariamente elegante, in un’armonia di gesti così in contrasto con il suo passato.
Ho voluto fotografarla per cercare nel movimento della mano che solleva il burqua, una metafora di liberazione, una rivolta decisa contro una prigione che il potere degli uomini ha inventato in un giogo perverso di sottomissione. Attraverso l’obiettivo le sue rughe, minuscoli insulti del tempo, mi apparivano come la grammatica di una storia che non aveva bisogno di parole. Vedevo i suoi occhi sorridere in un gesto di sfida al futuro, come se il passato non avesse potuto vincere sulla vita.
Lei era…ed è la vittoria! Le storie personali nascono dagli incontri e così pure le emozioni. Sarò sempre grato a Laila e alle tante “Laile” incontrate nel mio percorso nei luoghi del mondo, perché le loro impronte hanno segnato esperienza e memoria.
Quelle emozioni così private cerco con difficoltà di trasferirle sulla pellicola, perché condividerle significa farle ancora parlare vivere. Il tema della donne ha spesso guidato il mio lavoro di fotogiornalista. Sono loro le protagoniste coraggiose di tante realtà diverse e la forza di reagire alle condizioni più sfavorevoli ne fanno l’anello forte della società, soprattutto in quelle latitudini dove l’arroganza e il potere dell’uomo cerca di sottometterle e togliere voce alle loro istanze. Le ho viste combattere negli anni ’70 in Nicaragua e Salvador nelle lotte di liberazione da dittature feroci. Nelle barricate a fronteggiare eserciti addestrati o nelle fosse comuni a piangere figli e mariti torturati e spariti.
Ho documentato in Africa la capacità di sopravvivere a carestie e condizioni estreme…eppure trovare la forza di crescere i figli e proteggerli da un futuro senza futuro.
In Bangladesh il mio obiettivo si è fermato sulla tragedia delle donne/bambine distrutte nel corpo e nell’anima da uomini che gettano loro acido solforico per punirle di un rifiuto. Vite distrutte, vite negate….eppure, molte di loro, hanno trovato la forza di affrontare quel futuro che, nelle intenzioni dei
carnefici, avrebbe dovuto spegnersi in un gesto tragico e violento. Il privilegio della mia professione è quella di entrare in storie diverse, testimoniare il dolore, la felicità, un breve momento di vita o il lato più in ombra di un’umanità che si fa feroce e dimentica la pietà.
Le immagini che scatto restano impresse nella mia memoria visiva, acustica, olfattiva.
Tornano nel tempo a commuovermi o farmi male.
Credo che le immagini non siano solo testimonianza ma anche coscienza di chi siamo, ed è per questo che non voglio filtri diversi da quelli della realtà.

Lo scenario

Oltre trent’anni di guerra hanno distrutto l’Afghanistan, azzerandone le infrastrutture e il tessuto economico-sociale. Fondazione Pangea è a fianco delle donne, da sempre discriminate, che hanno, oggi, la possibilità di assumersi nuovi compiti e partecipare attivamente alla ricostruzione del loro Paese.

Il programma 

Dal 2003 Fondazione Pangea opera in alcuni distretti di Kabul a favore delle donne e delle loro famiglie, grazie a un circuito di microcredito affiancato ad altri servizi di tipo finanziario e sociale.

Le donne coinvolte nel Programma vivono particolari situazioni di marginalità economica e/o sociale e hanno tutte l’intenzione di ricostruire la vita loro e quella del loro nucleo familiare grazie alle loro abilità lavorative o idee di microimpresa. 

Le donne ricevono un microcredito dall’entità variabile, da un minimo di 150 a un massimo di 400 Euro, che consente loro di avviare un’attività generatrice di reddito.

Prima di ricevere il prestito, tuttavia, per favorire uno sviluppo olistico delle competenze e delle conoscenze, alle beneficiarie è richiesto di frequentare un corso di alfabetizzazione, di aritmetica – per gestire la contabilità della propria attività autonomamente -, di educazione civica e di diritti umani, di igiene e sanità. Inoltre, negli stessi centri donna dove le beneficiarie seguono i corsi e si recano per pagare le rate del prestito ogni settimana, ogni 2 mesi si organizzano incontri di animazione e socializzazione in cui ci si racconta, si condividono emozioni, problemi, speranze, si apprendono i diritti fondamentali delle donne, si scambiano le esperienze e si sviluppa la partecipazione al progetto, al centro donna, alla vita sociale.

Da 2003 a oggi sono stati erogati complessivamente 2017 microcrediti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *