Il 26 aprile del 1986, alle 1.23 del mattino, avvenne il disastro di Cernobyl, presso la centrale nucleare V.I. Lenin, in Ucraina settentrionale.
E’ stato il più grande incidente nucleare mai verificatosi fino ad allora…imitato molti anni più tardi alla centrale di Fukushima Dai-ichi avvenuto nel marzo 2011.
Le conseguenze furono tragiche, anche perché il governo di Mosca ( l’UKraina era ancora parte della Russia) denunciò il disastro alcuni giorni dopo con grave ritardo nei soccorsi e nel trasporto degli abitanti di Pryp”jat fuori dall’area contaminata.
La nuvola radioattiva fuoriuscita dal reattore, raggiunse anche l’Europa orientale, la Finlandia e la Scandinavia, toccando anche l’Italia, la Francia, la Germania, i Balcani fino alla costa orientale del Nord America.
350.000 persone evacuate, centinaia di morti e più di 4.000 casi di tumori alla tiroide.
Ancora oggi, nascono bambini partoriti da madri contaminate che sviluppano patologie tumorali alle ossa e al cervello.
Nel 2009 vengo contattato da SOLETERRE, una Onlus di Milano che promuove progetti a favore dell’oncologia pediatrica e supporta medici e strutture sanitarie, spesso fatiscenti, cercando di migliorare le cure ospedaliere e le prospettive di successo.
Vado a kiev, dove Soleterre ha un ufficio con volontari che lavorano a stretto contatto con i bambini malati e le loro famiglie. Entro una mattina nell’ospedale alla periferia della capitale ucraina per prendere confidenza con quello che diventerà per mesi la mia casa. L’impressione è sconfortante…le camere affollate, i letti scrostati, l’igiene compromesso da strutture vecchie e mai rinnovate. Difficile interpretare e testimoniare il tutto fotograficamente senza cadere nella facile retorica della sofferenza. Mi aggiro nei i giorni seguenti nella varie camere per conoscere i bambini e presentarmi ai genitori, spiegando il perchè della mia presenza e la finalità del lavoro. Ci sarebbe stata una grande mostra al Palazzo della Cultura di Kiev e i proventi sarebbero serviti al miglioramento delle strutture dell’ospedale. Così fu e il reportage apparso su testate italiana portò notevoli aiuti finanziari, al punto che poterono costruire una casa famiglia dove i genitori più poveri potevano soggiornare per lunghi periodi e assistere i loro bambini. Dopo giorni di pensieri cupi sono riuscito a trovare una chiave di racconto, poco concentrata sugli effetti plateali e dolorosi della malattia. Ho preferito mettere in risalto il rapporto tra bambino e genitore, gli abbracci, la forza di mamme e di padri che cercavano di dare serenità ai loro bambini spaventati dalle cure e dal dolore. La forza d’animo di chi sapeva che le speranze di vita del figlio erano appese a un filo eppure doveva sorridergli, prima di cadere nello sconforto e piangere di nascosto. Mamme che la notte dormivano su una sedia in corridoio perché non potevano permettersi un letto in una qualunque pensione. Per un lungo anno sono andato e tornato a Kiev…e ogni volta trovavo un letto vuoto di un bambino che non ce l’aveva fatta.
La mostra allestita quasi due anni dopo, la chiamammo “La Vodka contro il Cancro”. Titolo dovuto al fatto che molti medici, soprattutto nei villaggi, non avevano la capacità clinica di riconoscere patologie tumorali in atto e consigliavano medicine e flebo alle quali aggiungevano poche gocce di vodka, pensando che l’aggiunta del superalcolico lenisse i dolori alle ossa che affliggevano i bambini malati.
Il titolo non ebbe molto gradimento da parte del Ministero della salute ucraino e boicottarono la mostra che, nonostante tutto, ebbe un’affluenza di pubblico notevole, raccolse una cifra ragguardevole e sensibilizzò tanta popolazione sul problema che avevano in casa.